Sesto articolo della serie #seiodicotudici sviluppata in collaborazione con GiPI – Giovani Pakistani in Italia.
Dilfraz Afzal, nato in Pakistan e cresciuto in Italia, approfondisce sul legame tra la musica del suo paese d’origine e quella del paese che lo ha accolto: tra analogie, differenze, continuità.
Nella mia vita ho viaggiato molto e ho vissuto a lungo in tre paesi diversi. Questo mi ha permesso di sentirmi parte delle tre rispettive, e molto diverse fra loro, culture: la cultura pakistana, la cultura italiana e quella inglese.
Uno dei modi in cui vivo questa ricchezza e diversità è attraverso la musica. Per esempio, basta analizzare ciò che ascolto perché si riveli la mia identità di italo-pakistano.
Ho lasciato il Pakistan nel 2002. Avevo solo otto anni, ma avevo già imparato ad apprezzare la musica pakistana, sia quella tradizionale punjabi (l’etnia a cui appartengo), sia quella più commerciale, in urdu.
Gli Anni Ottanta
In Pakistan, l’industria discografica ha visto una forte crescita verso la fine degli Anni Ottanta. Nel 2002, c’erano già le prime cassette e i primissimi CD che iniziavano a girare nelle grandi città.
Nella mia regione, il Punjab, i cantanti commerciali più famosi e importanti erano Abrar-Ul-Haq, Jawad Ahmed, Faakhir, Ahmed Jahanzaib, Hadeeqa Kiani, Junaid Jamshed, Humera Arshad e altri ancora.
Le canzoni erano molto spesso in lingua urdu, alcune anche in punjabi, ed erano decisamente commerciali: trattavano di tematiche leggere e molto spesso erano create in studio con un misto di strumenti tradizionali, come le tabla, strumento a percussione, e strumenti digitali, come la tastiera elettronica, oltre a chitarra o basso.
I pionieri nell’apportare strumenti moderni e occidentali alla musica erano I Vital Signs nel campo della musica pop, i Junoon nella musica rock e poi altri artisti meno noti come Faisal Latif.
C’erano anche altri generi musicali: per esempio i Ghazal, poesie cantate con accompagnamento musicale; i Qawwali, canti religiosi accompagnati molto spesso da tabla e armonium, uno strumento simile alla fisarmonica; le Mahiye, canzoni folk cantate in dialetto punjabi, e altri generi che dopo l’indipendenza stavano diventando sempre meno noti, come per esempio il “Thumri”, un canto spesso accompagnato dallo shanai, uno strumento a fiato molto usato in occasioni di matrimoni.
La, diciamo così, virata in chiave pop veniva favorita anche dall’avvento della televisione.
Ancora mi ricordo che ogni volta che sentivo una canzone in televisione o per radio, mi sentivo molto contento e talvolta mi mettevo anche a ballare. Il mio legame con la musica è sempre stato forte e da bambino ero maggiormente attratto dalle canzoni commerciali.
Crescendo, ho cominciato ad apprezzare canzoni, cantanti e compositori che avevano vissuto molto prima di me, come Khursheed Anwar e Burman (India. Burman era nato a Comilla, Bangladesh).
Questi artisti avevano saputo coniugare la musica tradizionale con strumenti nuovi, Burman – o, se volete SDB – soprattutto è diventato molto famoso per avere dato nuovo spirito al mondo della musica indiana e indirettamente anche alla pakistana.
In India c’erano grandi di cantanti e cantautori nomi come Mohd Rafi, Mukesh, Kishore Kumar, Asha Bhosle e Lata Manghskar che dagli Anni ’50 e ’60 avevano prodotto migliaia di canzoni diverse e molto belle, questo grazie anche al grande contributo dei compositori che prima ho menzionato.
In Pakistan c’erano altri grandi nomi come Madam Noor Jahan, Inayat Hussain Bhatti, Ahmed Rushdi, Mehdi Hassan e tanti altri.
Anche loro hanno contribuito moltissimo alla musica pakistana tradizionale, tant’è che le loro canzoni, le loro Ghazal e le varie composizioni sono ancora oggi in circolazione. Come se per l’Italia oggi fossero ancora molto popolari le canzoni cantate di Bruno Lauzi o Gino Paoli.
In Pakistan molto spesso le vecchie canzoni vedevano cover di artisti emergenti, con nuovi arrangiamenti. Ricordo quando ero bambino di aver ascoltato e apprezzato canzoni “nuove” che nuove non erano affatto!
Gli Anni Novanta
Verso la fine degli Anni Novanta i blackout in Pakistan erano ancora molto frequenti. Avevamo circa tre ore garantite di corrente elettrica verso sera, e durante questa fascia, c’erano due serie TV alternate da programmazione musicale. Ricordo molto bene “Jaise chahe jio” di Najam Sheraz e “Hamari Intehai Shauq” di Hadeeqa Kiani: le mie prime memorie sono associate anche a queste canzoni.
Oggi, 25 anni dopo, quando riascolto queste canzoni, vengo trasportato a quelle serate estive in cui sul tetto della mia casa di campagna, seduto accanto ai miei nonni e zii, cenavamo guardando la TV.
Attraverso queste canzoni sono cresciuto e ho legato ancora di più con il Pakistan, con la mia cultura natia. Anche vivendo lontano, il legame che avevo con la mia patria è rimasto saldo.
Un’ultima canzone
L’ultima canzone che sentii in Pakistan fu quella di Jawad Ahmed: “Dholna”. La ascoltai sull’aereo della Pakistan International Airlines con cui lasciai il Pakistan il primo agosto 2002.
Arrivato in Italia, mi ritrovai in una casa molto più piccola, in un ambiente completamente nuovo, dove attorno a me si parlava una lingua sconosciuta. Mi ricordo che in quegli anni c’era il satellitare, ma prima di metterlo a casa nostra passarono alcuni mesi.
Mio padre era restio a metterlo perché pensava che fosse una perdita di tempo oltre che di denaro, mentre i miei zii, che all’epoca vivevano con me, avevano un’opinione opposta. Satellitare fu, dopo qualche mese.
Avevamo così modo di vedere canali pakistani e indiani trasmessi molto spesso via Inghilterra, ma alcune volte anche direttamente. Erano un mezzo per rimanere vicino alla mia cultura.
Nel frattempo, cercavo di fare zapping dei canali italiani senza capirci nulla. Non ho molta memoria dei miei primi tre o quattro anni in Italia, ma ricordo che cominciai a imparare l’italiano dopo un paio di mesi e, dopo quattro o cinque mesi, sapevo già a memoria sigle di cartoni animati come Dragon Ball, Pokemon e Conan.
È anche cantando queste sigle a squarciagola, a scuola, che ho legato con i miei compagni di classe.
Più in là con gli anni ho cominciato a conoscere e apprezzare Jovanotti, Nek e Laura Pausini, in un periodo della mia vita in cui stavo esplorando la cultura italiana e diventando sempre più consapevole della mia diversità.
È con la musica che ho stretto un profondo legame con la cultura italiana, un legame che si intreccia con i miei ricordi. La musica italiana era parte della mia identità così come alcuni anni prima lo erano state le canzoni commerciali pakistane, su quel tetto della casa in campagna.
Ritornai in Pakistan per la prima volta dall’Italia dopo cinque anni, a settembre del 2007. Ricordo, al ritorno in Italia dopo tre mesi, “Estate” dei Negramaro che passava alla radio e in TV.
Quella canzone rievoca per me l’autunno italiano dopo quella estate passata in Pakistan. Avevo molta nostalgia del Pakistan, ma ormai il pensiero di farvi ritorno mi sembrava un’assurdità. Sapevo che sarei rimasto in Italia per moltissimi anni.
Crescendo, cominciai ad avvicinarmi alla musica di artisti come Battiato, Battisti, De André. Mi ricordo le serate al parco passate a cantare con i miei amici, i miei nuovi amici italiani: in quegli anni c’erano pochi pakistani e non erano molto interessati alla musica italiana.
La musica mi ha anche permesso di creare dei forti legami con i miei amici ed è stata di aiuto nel superare le barriere; sentendomi cantare canzoni italiane, indiane e pakistane altri pakistani e italiani si univano a noi e ne nasceva un bel “coro” che bilanciava con entusiasmo e forza di volontà qualche problemino di tecnica…
E, crescendo sono diventato un “nostalgico” di un passato italiano che non ho mai vissuto: mi sono veramente appassionato alle vecchie canzoni italiane: Bruno Lauzi, Mina, Rino Gaetano, Toto Cutugno e altri artisti italiani famosi della seconda metà del ’900.
Ho, per così dire, portato con me tutti questi artisti, ora che vivo in Inghilterra. Qui ancora di più la lontananza da Pakistan e Italia mi porta spesso a cercare rifugio nelle canzoni che hanno accompagnato la mia infanzia e la mia adolescenza.
Penso che la musica mi abbia aiutato molto a capire me stesso e le diverse culture da cui sono stato circondato durante le diverse fasi della mia vita. Mi ha sicuramente aiutato ad apprezzare meglio valori quali amore, amicizia, rispetto: verso gli altri, ma anche del rispetto per sé stessi.
Negli anni ho visto anche nascere alcuni gruppi; con alcuni ho anche suonato le percussioni e il Cajun. Talvolta abbiamo combinato insieme ritmi indo-pakistani e italiani e ne sono uscite canzoni… ascoltabili!
Ho anche avuto la possibilità di ascoltare altri ragazzi italo-pakistani che hanno provato a cimentarsi nel mondo della musica. Il loro era un esperimento importante, che mi interessava molto, ed erano riusciti anche a produrre alcune canzoni e condividerle su YouTube.
Poi, come spesso accade, le responsabilità familiari portano molti ragazzi a trovare un lavoro più redditizio e a investire il loro tempo verso attività più remunerative.
Sebbene siano passati quasi quaranta anni dalla prima immigrazione dei pakistani in Italia, ancora molte famiglie pakistane vedono quello della musica come un shauq, cioè hobby, piuttosto che una professione vera e propria.
È anche per questo che ancora oggi ci sono stati pochi tentativi da parte della comunità pakistana in Italia di entrare nel mondo della musica. Recentemente, con l’avvento di Soundcloud, YouTube e altre piattaforme come Spotify, altri pakistani hanno iniziato a cimentarsi nel mondo della musica. Ma questi approcci sono più frequenti in Inghilterra che in Italia.
Io spero che, così come un tempo la musica mi ha aiutato ad abbattere alcune barriere sociali, possa aiutare anche altri ragazzi e artisti emergenti a dare libero sfogo alla loro creatività. Potrebbero uscire diversi generi interessanti, come è stato già sperimentato a Bologna nel 2013.
Shankar Mahadevan ha partecipato al Bologna Jazz festival e assieme ad altri artisti internazionali si è esibito mostrando come la musica possa essere sia flessibile che inclusiva.
Voglio chiudere questo articolo con un invito agli artisti pakistani: provare a lavorare su un genere nuovo, per un pubblico nuovo, non più solamente pakistano, neanche solamente italiano, ma di pakistani di seconda generazione, che come me, hanno apprezzato sia la musica pakistana che quella italiana.